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Provami, Signore

di fra Sergio Lorenzini

Conosciamo noi stessi solo fin dove siamo stati messi alla prova. Ve lo dico dal mio cuore sconosciuto». Sono i due stichi conclusivi della poesia Un minuto di silenzio per Ludwika Wawrzyńska, e il cuore sconosciuto appartiene alla poetessa polacca Wisława Szymborska. Nessuno – sembra dirci l’autrice – sa veramente chi è se non quando viene saggiato dalla vita. Per questo il Signore aveva fatto camminare per quarant’anni il popolo di Israele nel deserto: per «metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore» (Dt 8,2). Per questo lo stesso Signore aveva concesso a Satana di scagliarsi contro Giobbe, per verificare se davvero si sarebbe avverato quello che l’avversario prevedeva: «Stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!» (Gb 2,5).
È vero: l’uomo non conosce se stesso nel riposo, ma nella prova. Essa diventa lo specchio impietoso che infrange ogni finzione. Lo dice bene san Francesco nella tredicesima Ammonizione, dedicata alla virtù della pazienza: «Il servo di Dio non può conoscere quanta pazienza e umiltà abbia in sé, finché gli si dà soddisfazione. Quando invece verrà il tempo in cui quelli che gli dovrebbero dare soddisfazione gli si mettono contro, quanta pazienza e umiltà ha in questo caso, tanta ne ha e non di più». La prova mette a nudo la persona. Dinanzi al vigore dei suoi colpi si sciolgono le maschere – anche quelle religiose – dietro le quali ci siamo camuffati incarnandone con convinzione la parte e l’uomo si svela per quello che è. Un passo in più. La prova non è solo evento di rivelazione – «un chiarirsi che si paga», direbbe Ungaretti –, ma è anche luogo di trasformazione della persona. Nessuno ne esce tale e quale a come vi è entrato. È un bivio terribile tra luce e tenebra, un oscillare incerto tra vittoria e perdizione, una battaglia dall’esito sospeso. Perciò, dinanzi allo smarrimento della prova, il Siracide incoraggiava: «Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore» (Sir 2,4-5). Così il salmista osava rivolgere a Dio l’audace supplica: «Scrutami, Signore, e mettimi alla prova, raffinami al fuoco il cuore e la mente» (Sal 26,2). La prova ha la forza di purificare e nobilitare la materia della nostra umanità: per questo non va evitata.
Talvolta, tuttavia, essa è spinta all’estremo e sembra travolgerci come un’onda impetuosa. Lì il raziocinio si annebbia e resta solo un immenso bisogno di consolazione. Non rimane che un grappolo di forze e un lumicino di fiducia in Dio che – come insegna san Paolo – «è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1 Cor 10,13). Nasce allora la domanda del Padre nostro in cui – badate bene – chiediamo di essere liberati dal male, non dalla tentazione: ci basta non soccombere, perché dalla prova filtra una luce inattesa.