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L’unzione della fede


La tradizione cristiana ha sempre difeso l’integralità della redenzione operata da Cristo, smentendo ogni tentativo di escludere da essa la corporeità. Il figlio di Dio è salvatore della carne e non dalla carne.
di fra Raniero cardinale Cantalamessa


Nel testo autobiografico di Filippesi 3, Paolo ci suggerisce uno spunto pratico per la nostra riflessione:
«Fratelli, io non ritengo ancora di essere giunto [alla perfezione], questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,13-14).
“Dimentico del passato”. Quale “passato”? Quello di fariseo, di cui ha parlato prima? No, il passato di apostolo, nella Chiesa! Ora il “guadagno” da considerare “perdita” è un altro: è proprio l’aver già una volta considerato tutto una perdita per Cristo. Era naturale pensare: “Che coraggio, quel Paolo: abbandonare una carriera di rabbino così ben avviata per una oscura setta di galilei! E che lettere ha scritto! Quanti viaggi ha intrapreso, quante chiese fondato!”.
L’Apostolo ha avvertito confusamente il pericolo mortale di rimettere tra sé e il Cristo una “propria giustizia” derivante dalle opere – questa volta le opere compiute per Cristo –, e ha reagito energicamente. “Io non ritengo – dice – di essere arrivato alla perfezione”. San Francesco d’Assisi, verso la fine della vita, tagliava corto a ogni tentazione di autocompiacenza, dicendo: “Cominciamo, fratelli, a servire il Signore, perché finora abbiamo fatto poco o niente” (Fonti Francescane, 500).


Questa è la conversione più necessaria a coloro che hanno già seguito Cristo e sono vissuti al suo servizio nella Chiesa. Una conversione tutta speciale, che non consiste nell’abbandonare il male, ma, in un certo senso, nell’abbandonare il bene! Cioè nel distaccarsi da tutto ciò che si è fatto, ripetendo a sé stessi, secondo il suggerimento di Cristo: «Siamo servi inutili; abbiamo fatto quanto dovevamo» (Lc 17,10). E neppure, forse, bene come dovevamo farlo!
Una bella leggenda natalizia ci sprona a giungere a Natale così, con il cuore povero e vuoto di tutto. Tra i pastori che accorsero la notte di Natale ad adorare il Bambino ce n’era uno tanto poverello che non aveva proprio nulla da offrire e si vergognava molto. Giunti alla grotta, tutti facevano a gara a offrire i loro doni. Maria non sapeva come fare per riceverli tutti, dovendo tenere in braccio il Bambino. Allora, vedendo il pastorello con le mani libere, prende e affida a lui Gesù. Avere le mani vuote fu la sua fortuna e, su un altro piano, sarà anche la nostra.
Compiamo ora un passo ulteriore: “Come annunciare la salvezza di Cristo oggi?”. In uno degli ultimi Natali, assistevo alla Messa di Mezzanotte presieduta dal Papa in S. Pietro. Arrivò il momento del canto della Kalenda: «Molti secoli dalla creazione del mondo…
Tredici secoli dopo l’uscita dall’Egitto…
Nell’anno 752 dalla fondazione di Roma…
Nel quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Augusto, Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce a Betlemme di Giudea dalla Vergine Maria, fatto uomo».


Giunti a queste ultime parole provai quella che viene chiamata “l’unzione della fede”: una improvvisa chiarezza interiore per cui dici a te stesso: “È vero! È tutto vero! Non sono soltanto parole. Dio è venuto veramente sulla nostra terra”. Una commozione improvvisa mi attraversò tutta la persona, mentre potevo solo dire: “Grazie, Santissima Trinità, e grazie anche a te, Santa Madre di Dio!”. Tale intima certezza vorrei condividere a riguardo dell’esperienza della salvezza di Cristo oggi.
Apparendo ai pastori la notte di Natale, l’angelo disse loro: «Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10-11). Il titolo di Salvatore non fu attribuito a Gesù durante la sua vita. Non ce n’era bisogno, essendo il suo contenuto espresso già, per un ebreo, dal titolo di Messia. Ma appena la fede cristiana si affaccia sul mondo pagano, il titolo acquista una importanza decisiva, anche per opporsi all’abitudine di chiamare così l’imperatore o certe divinità cosiddette salvatrici, come Asclepio.
Questo già nel Nuovo Testamento, viventi gli apostoli. Matteo si preoccupa di sottolineare che il nome “Gesù” significa, appunto, «Dio salva» (Mt 1,21). Paolo chiama già Gesù «salvatore» (Fil 3,20); Pietro, negli Atti, preciserà che egli è l’unico salvatore, all’infuori del quale «in nessun altro c’è salvezza» (At 4,12) e Giovanni metterà sulla bocca dei Samaritani la solenne professione di fede: «Noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo» (Gv 4,42).


Il contenuto di questa salvezza consiste soprattutto nella remissione dei peccati, ma non solo. Per Paolo essa abbraccia la redenzione finale anche del nostro corpo. La salvezza operata da Cristo ha un aspetto negativo che consiste nella liberazione dal peccato e dalle potenze del male, e un aspetto positivo che consiste nel dono della vita nuova, della libertà dei figli di Dio, dello Spirito Santo e nella speranza della vita eterna.
La salvezza in Cristo non fu però, per le prime generazioni cristiane, solo una verità creduta per rivelazione; fu soprattutto una realtà sperimentata nella vita e gioiosamente proclamata nel culto. Grazie alla Parola di Dio e alla vita sacramentale, i credenti sentono di vivere nel mistero di salvezza operato in Cristo: salvezza che si configura, via via, come liberazione, come illuminazione, come riscatto, come divinizzazione, ecc. È un dato primordiale e pacifico che gli autori non sentono neppure il bisogno di dimostrare.
In questa duplice dimensione – di verità rivelata e di esperienza vissuta – l’idea della salvezza svolse un ruolo decisivo nel condurre la Chiesa alla piena verità su Gesù Cristo. La soteriologia fu per la cristologia quello che è l’elica per l’aereo e per la nave, la forza che trascina dietro di sé o spinge in avanti il tutto. Alle grandi definizioni dommatiche dei concili si giunse facendo leva sull’esperienza di salvezza che i credenti facevano di Cristo. Il suo contatto, dicevano, ci divinizza; dunque, deve essere lui stesso Dio. “Noi – scrive Atanasio – non saremmo liberati dal peccato e dalla maledizione [sottinteso, come invece siamo], se non era per natura carne umana quella che il Verbo assunse; né l’uomo sarebbe divinizzato, se il Verbo che divenne carne non fosse della stessa natura del Padre”.

Adamo Tadolini, San Paolo, Basilica di S. Pietro


Il rapporto tra cristologia e soteriologia è mediato, in epoca patristica, dall’antropologia, per cui si deve dire che a una diversa comprensione dell’uomo corrisponde sempre una diversa presentazione della salvezza di Cristo. Nella scuola alessandrina, per esempio, dove predomina una visione platonica, il male dell’uomo, la parte più bisognosa di salvezza, è la sua carne, ed ecco allora che tutto l’accento cadrà sull’incarnazione come il momento in cui, assumendo la carne, il Verbo di Dio la libera dalla corruzione e la divinizza.
Nella scuola antiochena, dove predomina piuttosto il pensiero di Aristotele, o comunque una visione meno platonica, il male dell’uomo sarà visto, al contrario, proprio nella sua anima e in particolare nella sua volontà ribelle. Ed ecco allora che si insisterà sulla piena umanità di Cristo e sul suo mistero pasquale. È in esso che, con l’obbedienza fino alla morte della sua anima umana, Cristo salva l’uomo. Facendo la sintesi di queste due istanze, la Chiesa, a Calcedonia, giungerà a un’idea completa di Cristo e della sua salvezza.
La fede cristiana non si limita però a rispondere alle attese di salvezza dell’ambiente in cui opera, ma le crea e le dilata oltre ogni aspettativa. Così vediamo che all’ideale platonico e gnostico della salvezza “dalla carne”, la Chiesa oppone con fermezza il dogma della salvezza “della carne”, predicando la risurrezione dei morti; a una vita oltretomba più scialba della vita presente e divorata dalla nostalgia di essa, priva com’è di uno scopo e di un centro di attrazione, la fede cristiana oppone l’idea di una vita futura infinitamente più piena e duratura nella visione di Dio. •