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La paura del cielo

In Astérix, per la prima volta nella storia del fumetto, i personaggi sperimentano il limite e il timore di non farcela. La soluzione? Restare con i piedi per terra.
di Mauro Scoccia

A più di sessant’anni dalla nascita – la prima storia comparve il 29 ottobre 1959 –, siamo qui a rendere omaggio ad uno dei fumetti più famosi al mondo: Astérix. Ma perché farlo nella nostra rivista? Perché crediamo che possa lasciare a tutti noi, grandi e piccini, appassionati o meno, un grande insegnamento. Purtroppo non abbiamo lo spazio sufficiente per poter presentare i vari personaggi e ambientare la storia; in ogni caso, niente paura: chi conosce già le peripezie dei simpatici Galli, sa quel che è necessario; chi non è avvezzo, sarò stimolato dalla lettura di questo articolo e magari inizierà a sfogliare qualche album.

Iniziamo, allora, con il far parlare gli stessi protagonisti:

BAH! CHE IMPORTANZA HA? QUELLI NON CI FANNO PAURA. NIENTE CI FA PAURA. NOI NON ABBIAMO PAURA DI NIENTE.

L’atteggiamento spavaldo con cui Astérix risponde ad un Obélix dubbioso sul perché i Normanni, i forti e temerari uomini del Nord, siano giunti al villaggio, non tiene conto di un elemento. È René Goscinny, lo sceneggiatore, voce della coscienza, a confermare quanto detto dal personaggio e ad aggiungere quel particolare molto significativo:

NOI SAPPIAMO BENE CHE I GALLI NON SONO SPECIALISTI DELLA PAURA, E CHE NON HANNO PAURA CHE DI UNA COSA : CHE IL CIELO GLI CADA SULLA TESTA…

Un dato, quello della paura del cielo, che terrorizza gli abitanti del piccolo villaggio di Galli, l’unico rimasto a resistere all’assalto degli invasori romani. Abraracourcix, capo della tribù, guerriero tanto temuto dai nemici, non può farci nulla: l’angoscia che gli cada giù tutto è più forte del coraggio che ha, ed è un’angoscia tanto più grande perché sa che ad essa non si pone rimedio alcuno, è indipendente dalla volontà degli uomini, dalle proprie doti. La paura del comandante si riverbera, com’è ovvio, sul suo popolo, che da lui prende ispirazione, consiglio, fiducia. In questo caso la pozione, espediente magico che risolve e supera le difficoltà, non può davvero essere utile: cosa farsene di un’invincibilità in battaglia quando da un momento all’altro tutto può finire, il mondo può crollarti addosso?

Eppure, è proprio la pozione a tirare sempre fuori dai guai i nostri personaggi, e già dal primo episodio, in cui vediamo Obélix, il gigante buono, malmenare quattro poveri malcapitati soldati. CI DEVE ESSERE UN SEGRETO IN QUELLA FORZA, rimugina il centurione. Non è nel cinghiale cotto in una manciata di minuti e fatto sparire in pochi secondi da Astérix e Obélix – soprattutto dal secondo, che dopotutto se l’è meritato lavorando. È in un pentolone. Ed ecco fare la sua comparsa il Mago Merlino dei Galli, Panoramix il druido: agilissimo nonostante la veneranda età, è sull’albero a cogliere “le gui”, il vischio, per preparare la pozione magica. Nella “marmite”, la grossa pentola in cui egli si accinge ogni giorno a creare il miscuglio segreto, c’è nascosto il desiderio di tutti: la possibilità di diventare forti anche se si sa di non esserlo, il sogno proibito di essere quello che non si è. Ma attenzione: l’effetto non dura a lungo, e i nostri eroi lo sanno bene. La trovata degli autori, beninteso, non è la classica, pacifica e accomodante soluzione al problema: Astérix non è una fiaba dal finale scontato, col superamento delle prove e il riconoscimento dell’eroe che salva tutti, che sposa la principessa, e che insieme tutti vissero felici e contenti. La pozione non mette tutti d’accordo nel senso che non interrompe la suspense del racconto, non chiude la porta al dubbio; insomma, non conclude: ogni giorno bisogna attingere il liquido miracoloso, ogni giorno bisogna ritornare a bere per poter essere più forti degli altri. Inoltre essa non dà l’immortalità, l’invulnerabilità: si può lottare ed uscire vittoriosi se alla pozione si unisce il dono che ognuno ha in sé, e cioè la capacità di farne buon uso. Astérix ha la tentazione di sapersi invincibile dopo aver preso la bevanda, ma il druido lo avverte:

RESTA QUI A GUARDIA DEL VILLAGGIO. LA TUA FORZA PROVIENE DALLA MIA BEVANDA, MA LA TUA INTELLIGENZA E LA TUA ASTUZIA NON APPARTENGONO CHE A TE…

A dire il vero c’è qualcuno che non ha bisogno di berla, anzi, non deve farlo ché sarebbe pericolosissimo. Obélix da piccolo è caduto nel pentolone e gli effetti della pozione sono permanenti: lui non può prenderla più.

Insomma: la pozione non basta, la paura resta. E l’elemento della paura in Astérix è di una novità devastante: mai fumetto prima di allora aveva osato porre limiti ai suoi personaggi. L’eroe classico del fumetto non ha défaillances, è immortale, non conosce timori e difficilmente è preoccupato, trova la soluzione ad ogni problema pur dopo essere passato attraverso mille difficoltà, non si rattrista e non piange se non in modo teatrale per suscitare le risate dei lettori; si deforma in mille smorfie, anche di dolore, ma il suo viso alla fin fine risulta disteso, l’atteggiamento pacato, il self-control riacquistato: è l’immagine vivente della perfezione, o quasi. I nostri, al contrario, corrono sempre sul fil rouge di una paura che vien da sopra, che si origina non si sa dove – è così grande, il cielo – ma che, a ben vedere, proviene da loro stessi, da un blocco psicologico nei confronti del quale nessuna bacchetta magica può nulla; è il timore ancestrale di sapersi piccoli piccoli di fronte alla natura, agli eventi, al caso, timore di qualcosa di sconosciuto che potrebbe accadere ma che non è mai accaduto ancora, ed è per questo che la paura fa novanta. La consapevolezza di essere umani, la coscienza di avere dei limiti li fa stare sempre coi piedi per terra perché sanno che lassù, in quel cielo, non perdonano.

In diverse occasioni è il capo a ricordare ai sudditi la loro paura prima di andare a combattere:

E RICORDATEVI : LA SOLA COSA CHE DOBBIAMO TEMERE, È CHE IL CIELO CI CADA SULLA TESTA !

La presa di coscienza del limite sembra essere il superamento del limite stesso: la debolezza diventa forza, perché nel far propria la paura la si esorcizza e si affronta con più coraggio quello che capita. È l’unico modo, per i nostri amici, per sopravvivere all’ansia e all’inquietudine che gli si parano davanti in ogni momento.

Astérix risulta essere il più saggio, fors’anche più di Panoramix. Lo dimostra al momento di partire per la Numidia alla ricerca del fidanzato di Falbala, avvenente signorina, quando smorza l’entusiasmo della ragazza:

TU CI RINGRAZIERAI, QUANDO TI RIPORTEREMO TRAGICOMIX… E QUESTO LO FAREMO SE IL CIELO NON CI CADRÀ SULLA TESTA !

Una sana prudenza, quella di Astérix, che in lui non assume mai i toni della superstizione, della credenza nei segni o nei sogni, della lettura tutta personale di sedicenti presagi. Cosa che avviene con un impaurito Abraracourcix (FARESTE BENE AD ASPETTARE CHE RISCHIARI… NON MI PIACE L’ASPETTO DEL CIELO !), che presta fede ad un indovino, un ciarlatano, un propinatore di false paure, e cerca di convincere il suo uomo più coraggioso del fatto che

NOI POSSIAMO LOTTARE CONTRO I ROMANI, MA NON CONTRO LA VOLONTÀ DEGLI DÈI !

L’uomo che detiene il potere nella tribù, l’uomo temuto e rispettato, coraggioso fino ad essere incosciente, sprezzante del pericolo, ha una paura matta di perdere la protezione degli dèi, in qualsiasi momento; teme che, presto o tardi, possa letteralmente cadergli il mondo addosso.

Eppure, non si può essere intimoriti da questo o quel segno, e di conseguenza venire condizionati nelle nostre azioni: l’Astérix che va avanti per la sua strada, senza dar peso alle chiacchiere e alle illazioni, ci dà la statura di un personaggio che non sta a guardare, non aspetta pauroso che il cielo gli si rivolti contro ma continua a fare le cose di sempre, e si pone quindi in modo attivo di fronte alla vita. Certo, sempre con l’umiltà di chi si sente fragile e sa che in ogni attimo tutto può finire.