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La grande differenza

di fra Sergio Lorenzini

Guardai prima lui e poi Tom, e pensai che tra gli uomini non c’è una differenza, nell’intelligenza o nella razza, profonda quanto la differenza tra chi sta male e chi sta bene.” La frase, estratta dal romanzo del 1925 Il grande Gatsby, dell’americano Francis Scott Fitzgerald, è sulle labbra di Nick, il narratore, e, pur detta quasi di sfuggita, contiene una potente verità. Molte sono le differenze in base alle quali marchiamo delle distinzioni nelle persone: intelligenti o stolte, benestanti o indigenti, colte o ignoranti, generose o avare, belle o brutte, bianche o nere, giovani o anziane, e così via. Tra tutte però, ravvisa lo scrittore, la più grande differenza è “tra chi sta male e chi sta bene.” Male che può essere malattia del corpo o del cuore, ma che, in ogni caso, intacca alla radice lo stato di salute dell’uomo mutandone la condizione. C’è un prima e un dopo molto netto in chi è toccato dal male, e il passaggio è dato dallo spartiacque del dolore. Dolore che non lascia mai come trova. Scriveva, a tal proposito, il filosofo francese Gustave Thibon ne La scala di Giacobbe: “Il male è una mola: a seconda della tempra delle nostre virtù, le consuma fino al nulla o le affina fino a Dio. La sofferenza ha questo di vero e di profondo: che ci fa necessariamente o salire o scendere: non conosce status quo, né linea orizzontale, essa porta in cielo o all’inferno. Chi cammina nel dolore non cammina mai in pianura.”
È una provocante verità: il dolore pone l’uomo su un piano inclinato che non gli consente di proseguire innanzi sullo stesso livello. Il dolore sfida l’uomo e nel duello sono chiamate in campo la volontà e l’intelligenza. La prima anzitutto: arrendersi e lasciarsi andare, abbandonandosi alla gravità della situazione, che trascina in basso fino all’annullamento di sé, o richiamare nell’intimo tutte le forze di cui si dispone per avviarsi all’ardua salita, piantando gli occhi a terra, al passo successivo, più che alla cima? Ma il salire a testa bassa ha pur bisogno di essere alimentato da una speranza che ne irrobustisca le motivazioni, altrimenti, come descrive il salmo 73, l’uomo si disorienta: «Quando era amareggiato il mio cuore e i miei reni trafitti dal dolore, io ero insensato e non capivo, stavo davanti a te come una bestia». Nel dolore è la fede che illumina l’intelligenza rendendola capace di quell’intus-legere che, sotto la superficie di ciò che accade, coglie un più profondo strato di verità. Luce che nulla toglie, neanche un grammo, alla pesantezza della croce, ma che offre su di essa uno sguardo nuovo, pasquale. Nel libro del Siracide è detto: «Accetta quanto ti capita e sii paziente nelle vicende dolorose, perché l’oro si prova con il fuoco e gli uomini ben accetti nel crogiuolo del dolore» (Sir 2,3-5). Allora sì, grande è la differenza tra chi sta bene e chi sta male, ma più grande ancora è quella tra chi dalla scala del dolore scende agli abissi o, come speriamo per ciascuno di noi, sale fino al cielo.