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Il religioso lieto nel Signore e il religioso vano

Il Dio di Francesco – e quello cristiano – è colui che gioisce della gioia dell’uomo perché la gloria di Dio è l’uomo vivente; il Dio di Gesù è gioia, e con abbondanza la vuole donare agli uomini.
di fra Pietro Maranesi

Beato quel religioso che non ha giocondità e letizia se non nelle santissime parole e opere del Signore e, mediante queste, conduce gli uomini all’amore di Dio con gaudio e letizia. Guai a quel religioso che si diletta in parole oziose e frivole e con esse conduce gli uomini al riso.
XX ammonizione di S. Francesco d’ Assisi


Il tema proposto è molto particolare: come, attraverso le parole, condurre gli altri alla letizia vera o a una letizia falsa, cioè come condurli al “sorriso” o, invece, al “riso”.
La nostra Ammonizione lega il raggiungimento della letizia allo scambio delle parole tra gli uomini. Ed esso, secondo le due parti a contrasto del testo, può avvenire in due modi opposti (e con due soluzioni differenti), in base ai soggetti coinvolti: nella prima parte ritroviamo il triangolo della vita, composto da Dio, dal religioso e dagli altri, dentro il quale soltanto nasce una parola che dona letizia e “sorriso”, mentre nella seconda si assiste ad un rapporto tra il religioso e gli altri che, però, si incontrano mediante parole vane che danno solo il “riso”.


Il religioso della prima parte (vv. 1-2) è beato perché si pone dentro un flusso «di gaudio e letizia» che nasce da Dio, passa dentro di lui e, attraverso lui, giunge agli altri uomini. In fondo la questione centrale della prima parte è stabilire quale sia la fonte della giocosità e della letizia. E la risposta è precisa: è Colui che è “giocoso” e “lieto” in assoluto e pienamente, cioè Dio, che è il “sorriso”. Ma non solo: la fonte della gioia e della letizia ha acquistato forma nel Signore e, ancor più precisamente, «nelle santissime parole e opere del Signore», una storia diventata evangelo, cioè una “buona notizia”, quella che fa gioire il cuore. Egli, per dirla con un’espressione bellissima di Francesco, è la «parola fragrante» che Dio ha rivolto e donato a noi (1LetFed 1). È quella parola con la quale il mistero dell’Amore dice di sé fino in fondo, diventando per noi una “buona notizia”. La fragranza di quella Parola risiede nel fatto che con essa Dio dice la verità di sé, comunica il suo essere il “Dio con noi”, parola che nasce dal suo cuore e lo fa diventare un cuore umano in Cristo. E ascoltare questa «parola fragrante» costituisce il motivo di giocondità e letizia dell’uomo. Egli ascolta una parola che, parlando del cuore di Dio e mostrandolo in Cristo, giunge al suo stesso cuore toccandolo nella verità della sua carne, cioè nei suoi desideri e nelle sue aspirazioni. Quella «parola fragrante» diventa letizia e giocondità perché tocca i bisogni della nostra vita offrendo parole sfamanti e nutrienti a favore di una umanità più umana. È da qui che ognuno deve attingere “fragranza” nel rivolgersi al fratello che gli è accanto. Da qui soltanto può trovare parole che siano “buone”, con le quali non si limita a ripetere qualcosa che “funziona” e “fa effetto” sugli altri, ma dona parole che parlino di sé stesso, comunichino la verità della propria umanità che ha ricevuto incontrando la Parola fragrante. Se ciò che dice non sgorga da questa fonte, da questa verità, da questa appartenenza, non potrà creare un dialogo dal quale far nascere giocondità e letizia. Solo se le sue parole dicono di sé, perché toccato dalla Parola, e si offrono con semplicità e verità ai bisogni, alle ansie, alle paure del suo fratello, esse possono diventare un dono fragrante che sfama, e dunque regala giocondità e letizia, cioè che dà la gioia del sorriso perché conduce il fratello “all’amore di Dio”, al suo sorriso eterno che riempie l’universo.


In tutto ciò si potrebbe dire che Francesco stia illustrando quale sia la natura del dialogo vero, utile, costruttivo, nutriente tra gli uomini: esso deve essere triangolare in una continuità tra i tre spigoli, legati dalla circolarità delle “parole fragranti” che nascono dalla Parola eterna, diventata Verbum crucifixum (secondo un’espressione di san Bonaventura) per trasformare e rendere libere, vere, fragranti le nostre parole, e così farle diventare fonte di gaudio e di letizia per coloro a cui sono donate. Sfamati dalla Parola, per diventare parola buona, fragrante, da offrire agli affamati di senso, e condurli a sorridere in Dio: questa è la natura del dialogo. Fuori di questa dinamica triangolare le parole diventano solo parole “vuote”.
Ed è il caso del religioso della seconda parte che vive il guaio delle «parole oziose e vane», cioè delle parole vuote, senza sapore né fragranza (v. 3). Sono oziose perché non parlano di sé, e dunque non sono dette per costruire rapporti veri e profondi, e di conseguenza sono vane, inutili perché senza sostanza e senza un vero contenuto che nutra e dia gioia a chi le ascolta: esse infatti non parlano della Parola. La natura vuota e vana di esse dipende da una doppia condizione. Innanzitutto lo spazio dialogico ha perso uno spigolo fondamentale della vita: le parole scambiate non hanno più un contatto diretto con la Parola; quello spazio della parola si è ristretto a due soggetti, perdendo l’orizzonte che dava all’incontro tra essi l’ultima consistenza e saporosità dialogica. In secondo luogo, e per conseguenza, cambia la sorgente da cui esse nascono: non scaturiscono dalla verità del cuore dell’uomo che le pronuncia, dalla sua umanità e dalla sua carne, per essere condivise con semplicità e affidate al fratello perché ascolti la Parola, ma da uno spazio vuoto, cioè neutro (e forse falso) nel quale ci sono le parole che servono e possono essere scelte secondo le convenienze e le opportunità. E all’interno di questo grande contenitore, a cui tutti possono attingere, sapendo di non dover usare le altre – quelle della propria umanità che sono, perciò, parole difficili e impegnative – vi è un genere di parole vuote e vane molto pericolose. Esse infatti tentano di catturare l’altro offrendogli quello che lui vuole sentire. Sono quelle parole che sollazzano e incantano così da condurre «gli uomini al riso». Sono quelle parole vuote e oziose con le quali si vuole essere simpatici e spigliati, intelligenti e interessanti per distrarre dalla propria verità e attrarre l’altro; esse sono quelle parole con le quali noi tentiamo di far “star bene” l’altro con noi, in uno spazio vuoto e vano in cui non c’è condivisione di umanità ma solo di banalità, superficialità e voglia di primeggiare nell’essere riconosciuto “simpatico”. Il risultato è il “riso” l’uno con l’altro, e forse l’uno dell’altro. Quest’uomo è in un guaio perché incapace di fare di sé una “parola vera” e dunque incapace di diventare una “parola buona”. Quest’uomo è nei guai perché in fondo è solo, senza parole da ascoltare e da offrire.


Un’ultima considerazione riguarda la contrapposizione, spesso qui proposta, tra “sorriso” e “riso”. Perché a mio avviso i due atteggiamenti dominano il testo di Francesco. La giocondità e la letizia hanno una prima parola che li contiene e li esprime pienamente: il sorriso, quello buono e vero. Ed esso partecipa del sorriso di Dio, perché Egli è il sorriso, che gioisce e si rallegra nel vedere che “tutto è molto buono”, e che si regala a tutti con abbondanza e gratuità. Il sorriso nasce dalla consapevolezza di essere guardati da questo Sorriso e di voler essere manifestazione dialogica all’altro di quella Bellezza piena di giocondità e letizia. Le parole vane e improduttive, vuote e doppie (secondo le opportunità e i vantaggi che offrono) sono riassunte invece nel “riso”. Se Dio “sorride”, il dia-bolo “ride”, contento di aver impedito l’incontro di vita tra i due uomini in dialogo, ispirando loro solo parole vuote, quelle che dividono senza dirlo, o che fanno stare insieme senza farli incontrare, che diventano come una patina protettiva per non dover toccare veramente l’altro ed essere toccati da lui. E allora è vero che “si sorride insieme” e “si ride da soli”. •