L’incontro del papa con gli adolescenti italiani suscita opportune riflessioni: anzitutto sulla presunta allergia dei giovani al mondo ecclesiale e poi su certe modalità giudicate efficaci per attirarli.
di Paolo Fucili
La sua biografia narra che dopo una vita cristiana esemplare, confortata dal buon Dio con innumerevoli frutti di bene, san Luigi Orione si spense nell’ormai lontano 1940. Era lui, grande apostolo della gioventù, ad ammonir saggiamente che i giovani sono “sole o tempesta di domani”. Affermazione questa particolarmente attuale oggi, che corre tanto in fretta che vissuti, esperienze e sensibilità sembrano sempre più distanti tra le generazioni che calcano la scena della vita. Affermazione pure ovvia, potrebbe suonare; ma se così fosse davvero, forse non solo i santi come don Orione la prenderebbero sul serio.
Non so perché ora mi sovviene questa ispirata citazione, forse appresa nella parrocchia orionina della mia giovinezza, in quel di Fano. Fatto sta che il 18 aprile scorso, lunedì dell’Angelo, a Roma splendeva un bellissimo, caldo sole primaverile, sulle teste di 80.000 giovanissimi arrivati da tutta Italia in piazza San Pietro, per incontrare papa Francesco.

Quando si parla di giovani e adolescenti, raramente le previsioni – per restare nella metafora meteorologica – fanno sperare in così belle giornate. Quella festosa invasione di piazza e dintorni è stata invece una felice eccezione. Ecco allora perché, pure a distanza ormai di mesi, val la pena ragionarci ancora e anzitutto pronunciare un piccolo ma doveroso mea culpa.
Ammettiamolo, noi operatori della comunicazione per primi, deponendo così la saccenteria a cui troppo spesso la nostra categoria professionale indulge: abbiamo ormai assuefatto chi ci legge e ci ascolta, e probabilmente anche noi stessi, ad una percezione della fascia di età 14-20 anni troppo prevenuta, monocorde, problematica, sostanzialmente negativa.
Tutti conoscono il principio giornalistico condensato in un’efficace espressione: notizia è l’uomo che morde il cane, non viceversa. Principio non certo campato in aria, ma guai ad assolutizzarlo! Che l’universo giovanile sia attraversato oggi anche da disagi diffusi e pulsioni non sane è evidente. E anche se ormai suona come un luogo comune, a furia di parlarne e dibatterne, anche questi anni di pandemia han messo a dura prova gli equilibri psicologici dei giovanissimi, spesso già fragili e precari per loro natura, trattandosi dell’età faticosa di formazione della personalità.
Premesso ciò, il problema è che a forza di raccontare su giornali e tv, di uomini che mordono i cani, si perde fatalmente di vista la “normalità” dei cani che mordono gli uomini. Quella normalità cioè che ”non fa notizia”, secondo certi canoni giornalistici del “sensazionale” a qualunque costo. Eppure, sarebbe altrettanto degna di essere raccontata, anziché sistematicamente taciuta.

Detto altrimenti, e tornando a quel 18 aprile, se gli adolescenti italiani fossero solo quelli delle cronache di comportamenti devianti e antisociali, notti brave, risse su Tik-tok, bullismi e chi più ne ha più ne metta, allora dovremmo sospettare che l’evento sopra citato sia avvenuto su Marte. Siccome invece è accaduto a Roma, e protagonisti erano i nostri figli, nipoti, studenti, ragazzini che incrociamo comunemente per strada ogni giorno, una scomoda constatazione si impone da sé.
C’è un pezzo non piccolo di universo giovanile su cui nessuno accende mai una luce, giusto per capir come e di chi è fatto e perché. È il “pezzo” che quel giorno si è preso allegramente la scena della più veneranda piazza della cristianità. Ma eventi del genere – ad iniziare dalle famose GMG, ma non solo da quelle – son tutto fuorché conigli estratti dal cilindro di un mago. Prima ideati, poi pianificati, annunciati, preparati, prendono forma giorno dopo giorno nella quotidianità operosa della vita della Chiesa “di base”, che vive tra la gente e per la gente: parrocchie e oratori di città e paesi, movimenti ecclesiali, associazionismo cattolico di varia matrice, dove un esercito di sacerdoti, religiosi, laici, catechisti, educatori, con le sole povere armi della fede e della passione educativa, “con generosità si spendono, e il loro lavoro è oscuro”, come li ha presentati al Papa il cardinal Bassetti, nelle vesti ora dismesse di presidente CEI, “talvolta lo vede solo il Signore e spesso è questa la loro unica, insostituibile consolazione”. Non saran tutti novelli don Orione magari, ma molta “santità nascosta” di cui ama parlare Francesco si nasconde certamente anche lì.
Del resto, per decidersi a salire in massa su treni e pullman il lunedì di Pasquetta mattina, viaggiare ore ed ore, sottrarre tempo e denaro ad altri impegni e attività, non basta certo l’invito di un pifferaio magico qualunque. C’è una fitta trama di rapporti di frequentazione, amicizia, fiducia, condivisione di tempo sia libero che impegnato, che ancora – a dispetto di innegabili fatiche della pastorale di oggi, giovanile soprattutto – fa sentire la Chiesa “amica” ad una non trascurabile parte di giovani. Dico “non trascurabile” apposta; se sia grande davvero non saprei, ma del resto è il Papa stesso che avverte, ad ogni occasione buona, di non farsi ossessionare dai numeri. E in una società come la nostra, giovanilista a parole, ma in concreto drammaticamente carente di passione per l’educazione dei giovani, sfido chiunque a negare che questa sia una buona notizia.

Tanto infatti ci sarebbe di bello da raccontare, tornando con la memoria a quel giorno. Se poi qualcuno chiedesse a me, come cronista, un dettaglio da evidenziare, allora risponderei la cospicua presenza di vescovi delle diocesi d’Italia in piazza coi loro giovani: non per dovere di ufficio, spero e credo di poter dire a ragione, ma perché a tutti, e dunque anche a loro, fa bene un’occasione ogni tanto di full immersion tra chi, come i giovanissimi, possiede un robusto “fiuto della verità”.
Così lo ha chiamato Francesco parlando loro: «Il fiuto di dire ‘questo è vero – questo non è vero – questo non va bene’; il fiuto di trovare il Signore, il fiuto della verità». E proprio perché riconoscono a naso le parole vuote di sostanza e di empatia, la falsità, l’opportunismo, gli adolescenti, se ascoltati davvero, sono un esigente banco di prova per chiunque, fosse anche chi li avvicinasse con le migliori intenzioni. “Abbiamo scoperto con un po’ di stupore – mi sono arrivati messaggi di vescovi – che questi ragazzi non sono contenitori vuoti da riempire”, raccontava su Avvenire don Michele Falabretti, il responsabile CEI della pastorale giovanile, tracciando un bilancio dell’evento.
Di gente che invece li blandisce furbescamente ce n’è già troppa in giro; blandirli oppure attirarli con proposte furbesche che vorrebbero ingannare quel fiuto, negare anziché assecondare i loro bisogni e desideri più veri.
E qui consentite a chi scrive una postilla dura forse, però sincera, circa il nome più altisonante del parterre dato in pasto alla piazza, per intrattenerla in attesa del Papa, con una scelta bizzarra a dir poco: Riccardo Fabbriconi, in arte Blanco, il cantante cioè del momento. Momento triste davvero, a giudicar non dico dalla qualità musicale, ma da certi testi del suo ancor piccolo repertorio e dalle pose con cui il personaggio fa parlare di sé. Scandaloso? Macché! Noioso più che altro, la stantia trasgressività giovanilistica trita e ritrita, nutrita di sesso e violenza.

E infatti la scaletta aveva saggiamente previsto per lui 5-6 minuti appena, per cantare la canzone sua forse più potabile. Del resto, lo han riferito candidamente gli organizzatori stessi, la gran parte dei presenti si era iscritta ben prima che fosse annunciata la sua esibizione. Se dunque davvero c’è stato un “effetto Blanco”, è stata più l’attenzione mediatica riscossa che non i giovani portati in piazza. Qualche fan cioè si sarà pure aggregato in extremis, poca roba però: che ci crediate o no, Papa, piazza San Pietro, preghiera e lectio divina bastavano alla grande.
Tanto, dirà qualche anima bella, gli adolescenti già ascoltano Blanco, comunque, checché se ne dica e che piaccia o no alla Chiesa. E dato allora che alcuni già eccedono col consumo di alcool, al prossimo evento papale coi giovani perché non allestire un open bar?
Perché è questo appunto il tasto dolente, il messaggio incautamente lanciato non tanto a chi c’era e ha visto e ascoltato, ma a tutti gli altri: la Chiesa, mater et magistra, non ha da proporre ai suoi figli ed allievi più cari niente di diverso, migliore, alternativo a quel che di piatto e banale il mondo già offre allegramente a piene mani, nemmeno per un pomeriggio, figuriamoci per la vita. Anzi, sembra dire loro: “venite e lo troverete anche qui”.
A che pro dunque far pubblicità al personaggio e alle sue canzoni in piazza San Pietro? A che scopo? Con quale ratio? Forse l’odierna smania – perché oggi di questo si tratta – del dimostrare che la Chiesa è aperta, sa stare al passo coi tempi, non ha preclusioni verso niente e nessuno? E qui, più che Blanco ci vorrebbe Bob Dylan: “Risposta non c’è, o forse chi lo sa, caduta nel vento sarà”. •