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Anche l’economia può essere redenta

Don Milani diceva che non c’è una politica cristiana, ma un modo cristiano di fare politica. Analogamente c’è anche un modo cristiano, e quindi pienamente umano e civile, di vivere le relazioni economiche.
di fra Damiano Angelucci


Ricordo abbastanza bene quando il compianto professor Tancredi Bianchi, storico presidente dell’ABI – Associazione Bancaria Italiana –, durante una lezione ci disse con forte senso di autoironia che gli economisti sono coloro che prevedono un certo scenario economico e che poi, quando tale scenario non si è verificato, sanno spiegarne le ragioni.
Di fronte all’incapacità della scienza economica dominante di offrire itinerari percorribili in questo contesto di incertezza sulle risorse ambientali ed energetiche del pianeta, sarebbe già sufficiente che i cultori della materia prendessero atto dell’insufficienza delle “teorie degli aggiustamenti automatici” dei mercati e provassero a capire perché esse non hanno funzionato, o meglio, perché non possono spiegare, né tanto meno hanno previsto, quello che è successo: una crescente situazione di squilibrio e di inefficienza nella distribuzione delle risorse della terra, con innegabili danni ambientali. Le sopradette teorie affermano che, per il semplice fatto che tutti gli attori economici perseguono il loro profitto, si giunge, prima o poi, ad un equilibrio ottimale per tutti.


Se la disomogenea ripartizione dei beni in passato era dovuta alla loro scarsezza, con gli elevatissimi tassi di produttività attuali la “sperequazione”, cioè la sproporzione tra chi ha di più e chi ha di meno, è ancora più scandalosa. Addirittura, siamo arrivati al punto che per tenere alto il prezzo di alcuni prodotti agricoli si preferisce distruggerli. Chiediamoci se già questo non sia un segno chiaro che il funzionamento attuale delle relazioni economiche in realtà è un “non funzionamento”, o quanto meno un funzionamento non per il bene collettivo. Lo scozzese Adam Smith che scrisse nel 1776 la famosa opera La ricchezza delle nazioni, fu il padre della moderna economia politica e fu in queste pagine che elaborò la teoria secondo la quale l’insieme dei comportamenti “egoisti” di tutti gli attori economici – imprese o privati cittadini – genera il benessere di tutti. Egli pensava che in un libero mercato i rapporti economici sarebbero come regolati da una “mano invisibile” che ottimizza la distribuzione delle risorse e genera il vantaggio di tutti.
Presuppone altresì che tutti gli uomini, perfettamente razionali nelle loro scelte di acquisto, vivano in una condizione di risorse illimitate, e che ci sia qualcuno, ad esempio lo Stato, che sappia efficientemente rimediare gli inevitabili, sgradevoli, effetti collaterali del sistema. Ma soprattutto ci sono ipotesi fortemente negative riguardo alla natura dell’uomo. Smith, e gli economisti nord-europei che lo hanno seguito, presuppongono una natura umana di per se “egoista”, individualista, ereditando dal secolo precedente ciò che aveva teorizzato il filosofo Thomas Hobbes: homo homini lupus (l’uomo è lupo per l’uomo); inevitabile vedervi la visione antropologica piuttosto pessimista della riforma protestante che non credeva ad una piena guarigione del cuore dell’uomo, benché beneficiario della redenzione di Cristo.
Occorrerebbe anche chiedersi, come ha fatto papa Francesco, come è possibile pensare che da atteggiamenti egoistici possa generarsi un bene per tutti. Che il Signore possa trarre il bene anche dal male, questo è un conto; affermare invece che automaticamente l’egoismo di tutti produca il bene collettivo è insostenibile non solo per un credente, ma anche per qualsiasi persona di buon senso.


Una visione diversa rispetto a quella appena presentata ebbero quegli economisti italiani, vissuti alla fine del 1700, che dettero più peso alla questione della “pubblica felicità”. Uno per tutti Antonio Genovesi, che a Napoli, nel 1753, istituì la prima cattedra di economia in Europa, pubblicando successivamente il testo delle sue lezioni con il titolo: Lezioni di commercio, ossia d’economia civile. Già dal titolo si capisce che al centro dell’interesse c’è il civis, cioè il cittadino. Nel concetto di “economia di mercato” – specie nella sua esasperazione capitalista, dominante fino ai nostri giorni – tutto fa perno sul mercato e sulla sua (presunta) capacità di organizzare efficientemente il commercio. Nel concetto di “economia civile”, introdotto dal Genovesi e da altri illuministi italiani, il fine dell’agire economico, invece, non è la massimizzazione del profitto, cioè il conseguimento del massimo vantaggio personale, ma – fatta salva l’inevitabile necessità del guadagno economico – la realizzazione della pubblica felicità. Quest’ultima, infatti, è il passaggio obbligato per il raggiungimento anche della propria.
Questa visione potrà sembrare utopica ad alcuni, ma considerati i danni ambientali e le enormi masse di povertà generate dalle teorie dell’“economia di mercato”, sarebbe il caso di pensare più realisticamente a ciò di cui l’uomo ha veramente bisogno, e cioè vivere sufficienti livelli di comunione con gli altri uomini. Si può essere certamente ricchi da soli, ma è sicuramente impossibile essere felici da soli, come suggeriva Aristotele, o esserlo in un ristretto gruppo di persone, con davanti alla porta una massa ben più numerosa di uomini scartati. Occuparsi della felicità altrui, in fin dei conti – si badi bene – conviene. Occorrerà per questo un cambio di mentalità: smettere di pensare ingenuamente che il mercato da solo aggiusti tutto o quasi, e iniziare piuttosto a concepire anche lo scambio economico come un momento in cui si possono coltivare sì interessi personali, ma anche relazioni sociali o crearne di nuove, e accumulare la ricchezza inestimabile della fiducia reciproca; tutto ciò sarà possibile se si affiancherà alla logica del contratto quella del dono come gratuità, cioè della possibilità di fare qualcosa non solo per un tornaconto immediato e diretto, ma anche con l’aspettativa che quel dono nel tempo possa generare un altro dono, foss’anche nei confronti di una terza persona, e questo ingenerare auspicabilmente un radicale cambio di cultura. •