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Altri o fratelli?

di fra Sergio Lorenzini

Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). È la celeberrima giustificazione che Caino accampò dinanzi a Dio, che gli chiedeva conto di suo fratello Abele. La questione della fraternità scaturisce tutta da quell’interrogativo: sono o non sono il custode del mio fratello? E, volendo essere più radicali: l’altro è semplicemente altro o è mio fratello? Perché se è mio fratello, come faccio a non esserne il custode? Ma per dirsi fratelli, se non si vuol giocare con le parole, occorre un’origine comune, un principio che lega; per essere molto semplici e poco astratti, ci vogliono un padre e una madre, occorre avere nelle vene lo stesso sangue e sentirsi parte di un’unica famiglia. Se poi, spiccando il salto della fede, ci si pensa nati in cielo nell’utero stesso della Trinità, da cui il “Padre nostro” feconda i suoi figli, i confini della fraternità si allargano al mondo intero, scavalcando ogni differenza di colore e di cultura.
Nonostante la biologia, capita, e non di rado, di veder fratelli divenire estranei ed estranei divenir fratelli o assistere a vicini che si allontanano e a lontani che si avvicinano. A ben pensarci, non è poi così strano; le relazioni umane, infatti, si giocano tra due processi contrapposti che decidono della qualità dei rapporti: l’estraniazione o l’identificazione, e con essi gli atteggiamenti che si tirano dietro, di indifferenza o di coinvolgimento. Si tratta di guardare l’altro come estraneo a me o sentirlo parte di me. Scriveva nel 1965 il rabbino e filosofo polacco Abraham Joshua Heschel nel suo Chi è l’uomo: “Il grado di sensibilità per le sofferenze degli altri esseri, è l’indice del grado di umanità raggiunto. Il contrario è la brutalità, l’incapacità a riconoscere l’umanità del prossimo, ad essere sensibile ai suoi bisogni e alla sua situazione”. Sulla stessa linea, commentando la parabola del buon samaritano, Papa Francesco afferma nella sua enciclica Fratelli tutti: «Ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità».
Nel drammatico film Il bambino con il pigiama a righe, tratto dall’omonimo romanzo di John Boyne, occorrerà il tragico errore di un pigiama indossato per gioco, che porterà il piccolo Bruno nella camera a gas, perché Ralf, l’ufficiale nazista padre dello sfortunato bambino, avverta nella sua pelle quel dolore dei figli altrui a cui prima era indifferente. Accade così: che quando i fratelli diventano semplicemente “gli altri”, il loro dolore si perde nella distanza che abbiamo interposto tra “noi” e “loro”. Ma se gli altri diventano fratelli, quella sofferenza diventa anche la nostra. «Voglia il Cielo – scrive Papa Francesco nell’enciclica citata – che alla fine non ci siano più “gli altri” ma solo un “noi”». E allora, lasciamoci provocare di nuovo dalla domanda di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?». Sì, lo sono.