Il nostro confratello fra Raniero Cantalamessa, recentemente nominato cardinale, concede un’intervista esclusiva ai lettori di Voce Francescana, di cui da anni è il curatore della principale rubrica spirituale.

Qual è il più bel ricordo della tua terra d’origine, le Marche?
Stranamente, il ricordo più bello, o almeno quello rimasto più impresso nella mia memoria, è stato il tempo del noviziato a Camerino. Camerino è il primo convento e il primo luogo di noviziato dell’Ordine dei Cappuccini, e vi si conservava a quel tempo uno stile di vita non molto cambiato dal tempo delle Costituzioni di Albacina: occhi bassi tutto il tempo, non parlare mai tra di noi novizi se non nelle feste o attraverso il Maestro (a quel tempo P. Onorio da Offida), alzata tutte le notti per il Mattutino, piedi nudi, freddo d’inverno, “disciplina” (i frati sanno che significa!), un pagliericcio per letto… Eppure mai più ho sperimentato tanta allegria nella mia vita di comunità. Una passeggiata a cercare funghi con P. Eusebio, un buon pranzo (il cuoco, Fra Crispino, era da tre stelle!), una festicciola: ogni piccola novità bastava a creare un clima di festa. Ma la ragione principale, adesso mi rendo conto, era un’altra: c’era Gesù e non c’erano altre cose a distrarci, nemmeno lo studio.
Com’è cambiata la tua vita da quando sei diventato cardinale?
A dire la verità, ancora non mi ci sono abituato del tutto e ogni volta che ricevo una lettera o una mail che comincia con “Eminenza Reverendissima” mi viene da dubitare, sul momento, se si tratta di me. Non molto è cambiato esteriormente nella mia vita. Anzitutto perché sono uno di quei cardinali ultra ottantenni ai quali non è affidato un particolare compito pastorale o di Curia, e poi perché vivo in un antico convento di Cappuccini, a Cittaducale di Rieti, con tre monache Clarisse cappuccine che cercano di vivere al femminile la Regola degli eremi di san Francesco. Soprattutto in questo tempo di pandemia vivo ritirato e mi sposto pochissimo. Vado a Roma solo per la predicazione, dal momento che, nel conferirmi questa dignità, papa Francesco mi ha chiesto di continuare a ricoprire l’incarico di Predicatore della Casa Pontificia, oltre a quello di Assistente Ecclesiastico del Rinnovamento Carismatico Cattolico di tutto il mondo.
Tuttavia qualcosa, nonostante tutto, è cambiato nella mia vita. Anzitutto all’esterno. Al momento del concistoro mi avete visto, per un istante, con la berretta cardinalizia in testa e alle prediche di Avvento con lo zucchetto rosso, la croce pettorale e l’anello. Venendo incontro a un mio espresso desiderio, il Santo Padre mi ha concesso di conservare l’abito cappuccino al posto della porpora cardinalizia. “Una concessione speciale in onore di san Francesco”: così papa Francesco ha spiegato a Benedetto XVI l’eccezione, durante la visita di cortesia che gli abbiamo fatto subito dopo il concistoro. Ho dovuto farmi fare uno stemma e ho scelto in esso come immagine la colomba e come motto la preghiera: “Veni Creator Spiritus”. Lo stemma figura già sulla facciata della chiesa romana a me affidata come diaconia, che è la Chiesa di Sant’Apollinare alle Terme, anche se abbiamo dovuto rimandare la presa di possesso per le difficoltà di spostamenti durante la pandemia. Accanto a queste piccole novità, ci sono i doveri abituali dei cardinali che vivono a Roma o nei dintorni: partecipare ai concistori, ordinari e straordinari, e alle celebrazioni nelle quali è prevista la partecipazione della Cappella papale.

Riusciresti a sintetizzare con una parola il pontificato dei tre Papi per i quali hai svolto il tuo servizio?
Provo a farlo, senza scadere in semplificazioni che rischiano sempre di essere pericolose: San Giovanni Paolo II, una personalità gigantesca che ha vissuto tutta la vita al cospetto del mondo e al cospetto di Dio; Benedetto XVI, una mente eccelsa e al contempo profondamente umile, combinazione rarissima almeno nel grado che si è visto in lui; Francesco, un uomo dello Spirito che non fa cose nuove, ma fa nuove le cose. Il cosmopolita, il teologo, il pastore, se si può racchiudere una vita in una parola».
Tra i tanti Paesi del mondo dove hai viaggiato per annunciare il Vangelo, dove hai visto la Chiesa più vivace e più promettente, e per quali aspetti?
Non posso nominare un posto unico. Ogni Chiesa ha le sue cime e le sue valli… Però devo dire che un Paese mi è rimasto particolarmente impresso per il fervore dei cristiani e, strano a dirsi, è un Paese a stragrande maggioranza islamica: gli Emirati Arabi. Il vescovo del posto è stato ed è tuttora un cappuccino, Mons. Paul Hinder. Intendiamoci: sono cristiani che sono lì per lavoro e provengono da altri Paesi – soprattutto India e Filipppine – ma sono circa il 60 per cento della popolazione. In nessun’altra parte ho visto chiese affollate, liturgie così partecipate, confessioni prese così sul serio. Non è consentito che un solo edificio cattolico per ogni città, ma esso raramente è senza persone in preghiera. Questo ci dice qualcosa sulle condizioni in cui la Chiesa fiorisce più facilmente. Mi ci sono recato una volta, con una troupe della RAI, per un ciclo di riprese della rubrica “A Sua Immagine”, e altre due volte per raduni carismatici regionali.
Viaggiando per il mondo si hanno delle belle sorprese. La Francia, per esempio, passa per essere uno dei Paesi più secolarizzati dell’Europa e del mondo, ma in essa sono presenti nuove comunità e fermenti di vita che, secondo il parere di un loro vescovo, “hanno ridisegnato la geografia della Francia cattolica”.

Quale parte del discorso che Papa Francesco ha rivolto a voi, nuovi cardinali, ti ha toccato maggiormente?
Quello, credo, che ha toccato tutti quelli che l’hanno ascoltato, e cioè il suo ennesimo richiamo allo spirito evangelico di servizio che deve caratterizzare ogni dignità e ufficio nella Chiesa. “Servire e non essere serviti”. È un richiamo quasi d’obbligo e quindi apparentemente di routine. Sulle labbra di papa Francesco esso, però, acquista una forza di persuasione nuova e straordinaria, per il semplice fatto che egli parla di quello che fa, parla con l’esempio prima che con la parola. Questa è la vera rivoluzione evangelica ed è la stessa che Francesco d’Assisi volle attuare a suo tempo, cambiando il nome tradizionale di superiori, abati e priori in quello di “ministri”, cioè di servi.
Un’ultima domanda, ma molto decisiva: secondo te, se un cristiano decidesse di incominciare veramente a fare sul serio con il Signore, da dove potrebbe incominciare?
Da sé stesso! Mi spiego. Gesù ha detto: “Se uno vuol venire dietro a me, rinneghi sé stesso” (Mt 16,24). Se uno ha deciso di “fare sul serio con il Signore”, vuol dire che ha ricevuto una chiamata. Dio, come sempre, l’ha preceduto con il suo amore. Adesso viene il grande momento in cui si decide se tutto rimarrà al livello di schermaglie tra Dio e l’uomo, come in un fidanzamento indefinitamente prolungato, o se ci si sposa, facendo la scelta definitiva tra vivere “per sé stessi”, o vivere “per il Signore”, tra l’inseguire progetti e traguardi personali, o fare propri quelli di Dio. Il luogo e il modo di vivere questa scelta definitiva – se nel matrimonio o nella vita consacrata – vengono dopo e sono, tutto sommato, secondari, anche se io amo ripetere ai giovani in fase di discernimento della vocazione che una goccia di propensione alla vita consacrata deve pesare quanto un quintale di propensione al matrimonio, e ciò per il semplice fatto che a spingere verso il matrimonio c’è già la natura, mentre dall’altra parte c’è solo la grazia. Anche per Francesco d’Assisi fu da qui che partì la sua grande avventura. Nel suo Testamento egli pone l’inizio della nuova vita nel bacio al lebbroso, nonostante che a quel punto si fosse già convertito e accostato a Dio. Sul senso di quel bacio, però, ci si può sbagliare e molti si sono sbagliati. Baciando il lebbroso, Francesco non ha fatto semplicemente un atto eroico di mortificazione o di carità: ha rinnegato sé stesso. È questo che ha deciso del suo futuro. Il suo primo biografo lo aveva compreso bene, perché descrive così l’episodio: “Un giorno gli si parò innanzi un lebbroso: fece violenza a sé stesso, gli si avvicinò e lo baciò. Da quel momento decise di disprezzarsi sempre più, finché per la misericordia del Redentore ottenne piena vittoria” (Celano, Vita Prima, VII, 17). •
