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Al cuor non si comanda

Una parentesi di vita sull’amore di un genitore per un figlio. Un sentimento indissolubile, infinito, a tal punto da doverlo contenere. Le emozioni racchiuse in piccoli gesti quotidiani che, se ascoltate, possono aggiungere un tassello alla nostra crescita personale.
di Federica Andruccioli

Il cartello stradale di fronte a noi dice “Stop / Strada dissestata / Proseguire a piedi”. Non ci rimane altro che parcheggiare nella radura qui accanto e incamminarci seguendo il sentiero.
Siamo arrivati fin qui con lo scopo di riprenderci nostro figlio dopo sette giorni di campeggio estivo organizzato dalla parrocchia di quartiere. Giorni e giorni senza sentirlo al telefono, figuriamoci vederlo. Avremmo potuto spiarlo, cosa che avevo prontamente suggerito a mio marito, avendo adocchiato un carinissimo bed and breakfast nelle vicinanze della casa estiva sede del campo in questione, ma pare non sia stata assecondata. Così eccoci qua, rassicurati solo dall’unica telefonata infrasettimanale dei grandi capi, fatta per informare indistintamente tutti i genitori che i ragazzi erano in buona salute, tranquilli e sorridenti, con la mera speranza che ciò fosse la verità. 


Agosto si presume sia un mese caldo in cui si scongiura la pioggia, così da poter togliere quell’afa che ti devasta. Non quest’anno, ahimè, perché il maltempo pare abbia avuto la meglio sulla nostra estate, tanto che di acqua ne abbiamo avuta davvero a catinelle. Anche oggi si suppone che pioverà, come ha fatto d’altronde per l’intera settimana trascorsa. Quindi, visto l’andazzo del tempo, tutta la famiglia è arrivata attrezzata: abbiamo scarponcini da trekking, k-way ed eventuale ombrellino. La radura a cui siamo giunti indica una serie di sentieri con diversi livelli di difficoltà e con i nomi più disparati: quello che, dalle informazioni ricevute, dovremmo seguire si chiama “sentiero dei lupi neri”, difficoltà media, tempo di percorrenza 45 minuti.
Non è proprio quello che mi sarei aspettata, una volta giunta qua. Pensavo sarei arrivata da mio figlio in un batter d’occhio, m’immaginavo un parcheggio adiacente al casolare, la casa colonica con ampio boschetto alle spalle e una corsa mal celata ad abbracciare il mio pargolo non appena fossi scesa dalla macchina. E invece no. Eccomi quindi in partenza per un trekking di altura e con l’ansia del diluvio incombente alle mie spalle. Messa da parte la delusione del momento, ci siamo attrezzati per la camminata, ognuno con il suo zainetto carico di viveri per il pranzo al sacco che, come da copione, condivideremo poi insieme a tutto il branco dei giovani scout.


“Viveri” dovrebbe essere sinonimo di “panini e poco più”, ma nel caso di un genitore alle prese con la domenica di fine campo rappresenta un pranzo completo di pietanze di ogni genere: tre vassoi di lasagne, il polpettone ripieno con sorpresa, le verdurine dell’orto del nonno tagliate à la julienne, la frutta fresca, termos per acqua fresca e, non di meno, il caffè. Il menù è stato accuratamente studiato per rallegrare il palato del nostro esploratore dopo una settimana di duro campeggio estivo, in cui si suppongono pasti frugali, corse sfrenate, poco riposo e lavori forzati di riordino e rammendo. Il cibo di casa deve rappresentare un abbraccio materno e il desiderio di tornare fra le mura domestiche. Ci suddividiamo così gli zaini per la camminata, dando al piccolo di casa, Francesco, lo zainetto dei dolci, prezioso a tal punto che sacrificherebbe anche un ginocchio lungo il sentiero pur di salvarli. Fra i lamenti di mio marito per la mia esagerata propensione alle catastrofi naturali che sento incombere su di noi, ci incamminiamo portando con noi: magliette di ricambio, beauty di emergenza, felpine, cappelli, calzetti di scorta e tanto altro senza memoria, perso nella borsa di Mary Poppins.


“Mamma, qui è pieno di sassi, se scivolo la crostata si rompe!”. “Dai pure a me lo zainetto”, uno più uno meno non fa certo differenza. La strada è sdrucciolevole, praticamente una mulattiera, percorsa la quale dovremmo intravvedere l’agognata meta. Chissà fra quanto tempo poi; fra la sosta per un goccetto d’acqua, il fascino dei funghetti qua e là, la raccolta delle affascinanti fragoline di bosco, purtroppo di color rosso sbiadito causa annacquamento per le continue piogge, i 45 minuti previsti si sono ormai raddoppiati.
La pioggia dei giorni scorsi ha riempito i piccoli fossati laterali rendendo i bordi del sentiero impraticabili e costringendo Francesco a fare lo slalom fra i ciottoli. Di solito sarebbe stato un lamento continuo ma oggi è tanta la voglia di rivedere il fratello che nulla può essere di ostacolo, neppure la pioggia che di nuovo è iniziata a scendere.
Nei due giorni precedenti la partenza ha pianto a dirotto, non per un gioco che non gli volevo comprare o per il vaso di cristallo di nobili origini frantumato, mentre si trastullava in camera con la solita palla (perché la casa – si sa – è un luogo ideale per una partita di calcio), bensì per la solitudine, quella del figlio temporaneamente unico, cosa incredibile a pensarci bene, considerando quanto tempo trascorrono a litigare quando sono insieme. Solo la nanna nel lettone, abbracciato al peluche del fratello, ha riappacificato gli animi, compresi quelli di mamma e papà.


Ecco, appunto: poi ci siamo noi, mamma e papà.  Per la prima volta ci siamo ritrovati a trascorrere una settimana intera senza il nostro primogenito. Persino il suo disordine mi è mancato (beh, forse quello non così tanto), il suo essere fra le nuvole e il suo incantevole sorriso. Il piacere di non doversi dividere fra due monelli ma di potersi dedicare interamente al piccolo Francesco è stato grande, insolito, ma molto appagante per tutti e tre. Ormai da cinque anni siamo abituati al caos di un piccolo appartamento e il “meno uno”, per quanto allarghi gli spazi dei singoli, tende però a scombinare gli umori. Siamo senza vederlo né sentirlo ormai da troppi giorni, lo troverò cresciuto, più magro sicuramente, chissà se mi lancerà le braccia al collo, in fondo è un bambino di soli dieci anni, posso ancora sperarci.
Mi hanno ripetuto che ai ragazzi fa bene incominciare a staccarsi dai genitori, che devono imparare a cavarsela da soli e che questi sono i primi passi verso una sana indipendenza dalla famiglia; non devo essere troppo chioccia, devo essere una mamma moderna.
È proprio qui, lungo il “sentiero dei lupi neri” che quindi realizzo: quando finalmente lo vedrò, non dovrò piangere per la gioia immensa di riaverlo di nuovo con me. Gioirò con moderazione al suo timido, ma tenero sorriso, guai a sembrare troppo coccolone davanti agli amici. Ascolterò con emozione controllata i suoi brevi racconti, perché si sa che i maschietti sono di poche parole (in qualsiasi decade di età) e alla fine gli ricorderò semplicemente che bella esperienza ha avuto la fortuna di vivere!
“Mamma eccolo, è laggiù, corro!”.
Mi fermo di scatto: dov’è? Lo cerco con lo sguardo, ma perché non riesco a trovarlo? Sono tutti vestiti uguali nella loro divisa, mi fanno tenerezza come dei cuccioli d’uomo che giocano a fare i grandi. Poi d’improvviso lo vedo: mentre toglie il cappello, alza lo sguardo verso di me, o forse verso il fratello da cui, con gli occhi pieni di gioia, ha sentito a gran voce ululare il suo nome!
Ed è a questo punto che il pensiero nasce spontaneo: tesoro mio, se nell’abbracciare tuo fratello maggiore vuoi piangere per la gioia di rivederlo, ti prego fallo tu per me, io non posso, mi dicono che non sarebbe educativo. •